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Homo urbanus. Città e comunità in evoluzione

di Maurizio Carta

 

“Fin dalla prima giovinezza ho concepito un vivo desiderio di capire
o di spiegare tutto ciò che osservavo,
cioè di raggruppare tutti i fatti sotto leggi generali.”
Charles Darwin, Autobiografia (1809-1882)

 

Homo urbanus è un libro dedicato alla necessità di un salto evolutivo dell’umanità e delle città, insieme in una indispensabile coevoluzione. La città è un palinsesto della memoria dell’umanità, da millenni matrice della suo progresso, e adesso deve essere il più brillante progetto di futuro per la specie umana in evoluzione dall’Homo sapiens che ha attraversato la rivoluzione cognitiva, quella agricola e quella industriale e che, per non soccombere, si avvia a compiere nelle città le transizioni ecologica, digitale e culturale per raggiungere un nuovo stadio evolutivo di Homo urbanus. Città e comunità, come gli organismi biologici, non si limitano ad evolvere singolarmente, esse si influenzano a vicenda e coevolvendo mutano attraverso processi incrociati di adattamento modellandosi verso nuove specie urbane.
Il libro affronta l’Antropocene, l’era, iniziata con la Rivoluzione Industriale, in cui gli esseri umani sono diventati una specie dominante con una enorme capacità trasformativa in maniera estrattiva e predatoria nei confronti della natura, comportandosi come specie imperfetta ma arrogante nel nascondere la fragilità dentro sistemi urbani troppi minerali, ecologicamente insostenibili e generatori di diseguaglianze. Abbiamo creduto di entrare in un’era di meraviglie antropocentriche e ci siamo ritrovati in un incubo antropogenico, una vera e propria Antropocalisse. Per uscirne, l’ecosistema urbano deve cambiare radicalmente passando da una modalità predatoria a una relazione che torni simbiotica con il pianeta, producendo progresso non a discapito di altre specie, producendo più futuro senza erodere le potenzialità del diverso presente, generando intelligenza collettiva senza deprimere le altre forme di intelligenza, forgiando cultura senza consumare la materia prima vivente del pianeta.
Come saranno le città dell’Homo urbanus? In un processo di coevoluzione tra spazio e società, tra luogo e comunità dobbiamo ripensare le città per riequilibrare i rapporti ecosistemici tra biomassa e massa antropogenica, per ridurre le diseguaglianze sociali e per affrontare le ingiustizie spaziali prodotte dal collasso antropocentrico. Il libro descrive le città in cui vivrà l’Homo urbanus come una rete planetaria di condizioni urbane, come un arcipelago di intensità e identità urbane differenziate, con una rinnovata e più ricca prossemica urbana, abitate da comunità cosmopolite che riducano la loro frenetica mobilità centripeta distribuendosi in un fertile policentrismo e che facilitino relazioni più a misura delle donne e degli uomini, garantendo la risposta a numerose esigenze entro un raggio breve, ma anche rimanendo connesse alle relazioni medie e lunghe. Per rigenerare città più femminili e plurali, più ecologiche e intelligenti, più giuste e sicure serve una nuova urbanistica che, come un bricolage, utilizzi, ricomponendoli, i materiali che provengono dalle scritture plurali delle comunità umane (e non umane): un’urbanistica custom made, incrementale e adattiva, prodotta insieme da tattiche e da strategie, da progetti e da norme.
I primi esemplari di Homo urbanus dovranno superare vari fallimenti, conflitti e crisi, che ne potenzieranno l’organismo, portando con sé verso le generazioni successive le nuove caratteristiche di una umanità che riattivi una relazione ecologica con il pianeta, e con le altre specie, in un rinnovato rapporto simbiotico con le città.

Il libro uscirà tra giugno e luglio 2022 per i tipi di Donzelli Editore.



Indice
1. La Sindrome di Droctulft
Leggere le tracce dell’Homo urbanus
2. Benvenuti nell’Antropocalisse
Sulla soglia del collasso antropico
Contro la sindemia urbana
Next European Generation
Ripartire dall’Era dell’Acquario
La rivoluzione ecologica
3. Verso il Neoantropocene possibile
Una strategia d’uscita
La rete delle città del Neoantropocene
4. Vivere la cosmopoli
Abitare, e progettare, la cosmopoli
La città neocosmopolita
5. Homo urbanus e città aumentate
L’urbanistica del Neoantropocene
La città come ecosistema dell’innovazione
Le dieci dimensioni/azioni della città aumentata
Un’agenda per la ripresa e resilienza delle città italiane
6. Un arcipelago di prossimità differenziate
La città mangrovia
7. Città, femminile plurale
Le città delle donne
Abilitare le diversità
Nelle città dovremmo essere tutti femministi
8. Il canone della rigenerazione urbana
Il bricolage della rigenerazione urbana
Comunità resilienti
9. Nuovi protocolli per l’urbanistica evoluzionista
Dai masterplan ai masterprogram
Cityforming Protocol, l’urbanistica bricolage
Verso una transizione urbanistica evoluzionista e quantistica
10. Conclusioni
Rari nantes in gurgite vasto
Riferimenti bibliografici


Sinossi
Il libro affronta, analizza e interpreta il ruolo dell’armatura urbana planetaria composta da città a estensione, densità e demografia variabili capaci di aggregare in forme diversificate luoghi, frequentazioni, usi e attività in modo creativo e in forme capaci di generare nuova città, nuovi adattamenti, inusitati effetti. Città in evoluzione permanente attraverso modifiche continue del loro genoma. Lo sguardo del libro è ampio e senza pregiudizi, guarda le città lì dove rintraccia le scintille di creatività che sappiano alimentare visioni, progetti, stili di vita che sappiano attrarre e generare talenti. Sono stati interpretati tutti i segnali di futuro, anche i più deboli, spesso indagando negli strati della storia urbana per trovare vicinanze lì dove sarebbe più facile trovare distanze, per trovare armonia dove sembrerebbe esserci solo dissonanza. È un libro alimentato dall’azione positiva per stimolare la partecipazione al cammino evolutivo proposto, un libro dichiaratamente innamorato delle città, perdutamente conquistato dalla loro seduzione. Il libro parte dal presupposto che città e comunità, come gli organismi biologici, non si limitano ad evolvere singolarmente, esse evolvendo si influenzano a vicenda dando vita a vere e proprie reti auto-consistenti (ecosistemi, comunità, ecc.), al margine del caos e sempre pronte a ri-modularsi. Ecosistemi urbani e società umane coevolvendo mutano a vicenda attraverso processi incrociati di adattamento modellandosi verso uno o più “possibili adiacenti”, cioè verso specie urbane che ancora non esistono ma a cui si accede attraverso i cambiamenti evolutivi. Nella complessa evoluzione della specie umana, tra ramificazioni, sopravvivenze, adattamenti, sconfitte ingiuste e prevaricazioni predatorie, siamo di fronte all’emergere di un nuovo stadio evolutivo verso una umanità che, a partire da alcune mutazioni del genoma sociale, sarà sempre più responsabilmente urbana, non solo come prevalenza del suo ecosistema insediativo e produttivo, ma come vera e propria caratteristica genetica che si manifesta nei comportamenti, nelle posture, negli stili di vita.

Il secondo capitolo del libro affronta e spiega l’Antropocene, l’era, iniziata con la Rivoluzione Industriale, in cui gli esseri umani sono diventati una specie dominante con una enorme capacità trasformativa in maniera estrattiva e predatoria nei confronti della natura (e spesso anche tra la stessa umanità), desiderosi di emanciparsi dalle dinamiche ecosistemiche di cui abbiamo fatto parte per migliaia di anni, comportandosi come specie imperfetta ma arrogante nel nascondere la fragilità dentro i nostri sistemi urbani troppi minerali, ecologicamente insostenibili e generatori di diseguaglianze. Siamo entrati in un’apocalisse antropica illudendoci di aver raggiunto l’apice dell’evoluzione e invece stavamo ammirando la soglia del collasso. Abbiamo creduto di entrare in un’era di meraviglie antropocentriche e ci siamo ritrovati in un incubo antropogenico In questo tempo pandemico confuso, con euforia palingenetica, si sono moltiplicate le visioni e le proposte per la civiltà post-pandemica, ma le cronache sanitarie di questi giorni dimostrano che siamo ancora nel Coronacene, così come non si attenuano i segnali del superamento dei limiti cruciali del pianeta. Il libro presuppone che siamo in una crisi di sistema che produce una drammatica “sindemia”, perché la Covid-19 è una malattia di sistema che colpisce maggiormente le persone svantaggiate, con redditi bassi, socialmente escluse, affette da malattie croniche, che vivono in habitat urbani che richiedono soprattutto nuove politiche pubbliche su ambiente, salute, istruzione e abitare, e non solo risposte epidemiologiche. Siamo dentro una sindemia prevalentemente urbana prodotta dalla coazione perfetta – e perversa – della crisi climatica, delle diseguaglianze sociali, dell’ingiustizia spaziale e, adesso, dell’emergenza sanitaria pandemica. Per uscire dall’Antropocalisse le città a prova di sindemia – e a prova di futuro – devono cambiare gli spazi e i comportamenti dell’abitare attraverso alcune mosse: addensare, redistribuire, ibridare, adattare. Sono le mosse che consentono alle città di produrre l’innovazione necessaria a modificare l’ecosistema per permettere l’evoluzione dell’Homo urbanus. Contro il consumo di suolo vegetale dovremo aumentare la densità di alcune parti per accogliere le nuove funzioni richieste dalla diversità degli abitanti delle città e aumentare la permeabilità di altre parti per riportare in città i necessari servizi ecosistemici. Contro la congestione centripeta dovremo distribuire servizi e attività nell’intero territorio urbano, tornando ad arricchire i margini di funzioni centrali che li rianimino, riducendo gli spostamenti parossistici, ed evitando gli assembramenti che rendono fragili i grandi attrattori (i primi, ad esempio, a cadere sotto i colpi del virus). Per aumentare il tasso di flessibilità delle città del nuovo futuro urbano dovremo rendere gli spazi più ibridi, sia quelli pubblici sia quelli domestici, lavorando sulla facile modificabilità degli usi entro campi di possibilità invece che secondo rigide regole normative. Infine, anche attraverso nuovi approcci alla progettazione, alla prefabbricazione, alla fabbricazione digitale, all’uso di materiali tecnologicamente innovativi, dovremo rendere le città più adattabili, capaci di accogliere la creatività degli usi, l’adattamento da parte degli abitanti, il bricolage permanente degli spazi in trasformazione o dismessi.

Il terzo capitolo invoca un salto evolutivo: l’ecosistema urbano dell’Homo sapiens deve cambiare radicalmente passando da una modalità predatoria a una relazione che torni simbiotica con il Pianeta
, producendo progresso non a discapito di altre specie, producendo più futuro senza erodere le potenzialità del diverso presente, generando intelligenza collettiva senza deprimere le altre forme di intelligenza, forgiando cultura senza consumare la materia prima vivente del pianeta. Parte dalla consapevolezza che davanti alla crisi evidente dell’Antropocene e all’avanzata dell’Antropocalisse non possiamo continuare a emettere gas climalteranti, a inquinare l’ambiente, a depredare le risorse e a ridurre la biodiversità degli ecosistemi e la diversità culturale delle città. Dobbiamo, invece, invertire la rotta per dirigerci con responsabilità, ma anche con creatività perché la mappa non è interamente disegnata e ha molte lacune che dobbiamo colmare, verso una nuova definita Neoantropocene. Un’età – o più propriamente un nuovo modo di essere e agire – in cui l’umanità non abdichi al suo ruolo determinante nell’evoluzione, ma si liberi dell’arroganza predatoria e della volontà di dominio sul mondo, amplificando, invece, sensibilità e consapevolezza, responsabilità e impegno per tornare alla sua naturale omeostasi con le altre specie viventi del pianeta. A partire da una rinnovata ecologia integrale dobbiamo coltivare una ecosofia del mondo che si trasformi in paradigmi urbani, protocolli progettuali e in dispositivi urbani per ricomporre i cicli di vita di una nuova umanità che voglia agire entro una nuova relazione simbiotica con un pianeta che agisce sempre più come un “superorganismo”, cioè come un insieme di individui umani e non-umani organizzati in società coese, dove tutti hanno un ruolo chiaro e definito e – come le componenti di un meccanismo perfetto – si muovono all’unisono concorrendo in maniera differenziale e incrementale al perseguimento dello sviluppo del pianeta, senza arroganti primazie, ma agendo nell’interesse della òikos comune. A partire dalla città, che è sempre stata la base spaziale della società, il luogo della concretizzazione dei principi filosofici.



Il capitolo quattro riflette sul cosmopolitismo dell’Homo urbanus come azione filosofica prima che politica, sociale o urbanistica, perché richiede una riflessione profonda sul senso di essere connessi a un luogo “e anche” al mondo intero, di essere individui “e anche” correlati alle diverse comunità planetarie, e sulle conseguenze dell’abitare la Terra (e il Cosmo) degli esseri urbani. La natura, e anche noi uomini, non è fatta di cose in sé, ma di un intreccio di relazioni ed eventi, di processi evolutivi che avvengono nel tempo e nello spazio: il mondo che osserviamo è un continuo interagire, una rete di reciproca informazione al livello fisico più elementare. Siamo un ricamo delicato e complesso della rete di relazioni di cui, al meglio che comprendiamo oggi, è costituita la realtà, e anche le città non sfuggono a questa legge universale: tutto è correlazione, flusso, apertura, vibrazione, in un intenso entanglement che, dai recessi della cosmologia quantistica, attraversa la storia delle correlazioni tra l’umanità e il pianeta. In sintesi, il cosmopolitismo ci chiama a una sfida cognitiva oltre che pratica. Il concetto di cosmopolitismo non è, quindi, univoco ma presenta delle sfaccettature estremamente variegate, talvolta contrastanti, che fanno del termine un contenitore permeabile (perché media diverse componenti) e pneumatico (perché respira di diverse vite) che solo un nuovo progetto di città planetaria può essere in grado di riempire di rinnovati significati. Le città e le regioni del XXI secolo vengono rimodellate dalle principali forze socio-culturali emerse alla fine del Novecento: l'ascesa della società civile quale attore chiave della città, l'età della migrazione e dei cambiamenti etnico-culturali che ad essa si sono associati nelle aree urbane, e l'epoca del post-colonialismo e delle rivendicazioni di popoli indigeni, del femminismo e di altri gruppi storicamente oppressi che chiedono spazio, rivendicano diritti di proprietà della terra e così via, generando nelle aree urbane dei Sapiens ansie profonde, paura, conflitti tra culture e crimini di intolleranza. Per immaginare un futuro di coesistenza delle medesime forze socio-culturali viste come spinte evolutive è necessario cercare di costruire una nuova nozione di cittadinanza urbana o locale. Serve un modo di guardare, valutare, conoscere e costruire la città al di fuori degli schemi mentali dominanti nel Novecento, più aperto al contributo degli “altri”, collaborativo, decoloniale, non patriarcale e multiculturale. Il libro propone un'utopia urbana - neocosmopolis - basata su un'epistemologia della molteplicità, sensibile alle comunità, all'ambiente e alla diversità culturale. Dobbiamo, quindi, esplorare un vero e proprio habitat neocosmopolita dell’Homo urbanus che rimodelli le città attraverso connessioni digitali e sicurezza locale, l’apertura al mondo e l’autodeterminazione delle comunità locali, spazi ibridi e nuovi abitanti. Servono città neocosmopolite che tornino ad attraversare le diverse scale dei mondi, la grande scala delle relazioni globali e la piccola scala dei diversi gradi di prossimità a cui le città devono aprirsi: plasmando i loro spazi sia per aprirsi alla correlazione, sia per garantire il “cosmopolitismo dal basso” che si oppone ai conflitti – e confini – di classe, di vicinato e di lingua.

Il quinto e il sesto capitolo rispondono alla domanda su come abiteranno i nuovi esseri urbani. Come saranno le città dell’Homo urbanus? In un processo di coevoluzione tra spazio e società, tra luogo e comunità dobbiamo ripensare le città in una rinnovata simbiosi con una umanità che muta e con il pianeta entro una relazione ecologica che riequilibri i rapporti ecosistemici tra biomassa e massa antropogenica, che riduca le diseguaglianze sociali e che affronti le ingiustizie spaziali prodotte dal collasso antropocentrico. L’evoluzione della specie umana dovrà plasmare anche un nuovo ecosistema urbano poiché le città da sempre sono state sempre la fabbrica della civiltà, un potente vettore di democrazia. Non è più il tempo della manutenzione, dei piccoli adattamenti, degli emendamenti al modello insediativo urbano. Per valorizzare pienamente il potenziale innovativo e creativo delle città europee (metropolitane o rurali, dense o diffuse, tradizionali o nuove, grandi e piccole) abbiamo bisogno di un cambio di paradigma urbano fondato sull’azione congiunta di tutte le dimensioni, integrate e indivisibili, dello sviluppo sostenibile. Nell'era del ripensamento delle città, ma contro i movimenti anti-urbani, e nell’ambito delle sfide delle città creative ed ecologiche, viene proposta la “città aumentata” come necessario salto di paradigma. La città aumentata parte dalla città esistente per incrementarne le qualità e le capacità di rispondere alle esigenze dei suoi abitanti, proponendosi come un dispositivo spaziale (perché la città è innanzitutto uno spazio che noi plasmiamo per viverci) in grado di agire contemporaneamente nelle dimensioni culturale, sociale, economica ed ecologica per migliorare la nostra vita, individuale e collettiva, informale e istituzionale, amplificando lo spazio urbano generato dagli effetti dell’innovazione. Il libro descrive le città aumentate in cui vivrà l’Homo urbanus come una rete planetaria di condizioni urbane, come un arcipelago di intensità e identità urbane differenziate, con una rinnovata e più ricca prossemica urbana, abitate da comunità permanenti e temporanee che riducano la loro frenetica mobilità centripeta e che facilitino una mobilità più misurata garantendo la risposta a numerose esigenze (ma non tutte), rimanendo connesse anche alle relazioni medie e lunghe. Significa pensare – e progettare – la città in termini ecosistemici, rimettendo insieme il ruolo dei quartieri della “città dei 15 minuti” a piedi che Parigi, Barcellona, Copenhagen e Milano, tra le altre, stanno già sperimentando con successo per riqualificare e arricchire lo spazio immediatamente oltre la domesticità, con la “città dei 100 minuti” delle relazioni policentriche urbane (che possono anch’essi corrispondere a 15 minuti in bicicletta o con un auto elettrica), fino alla “città dei 1.000 minuti” (le città distanti più di 50 km dai più grandi centri urbani, anch’esse potenzialmente connesse con un trasporto pubblico locale sostenibile), dove le persone abitano e lavorano nei centri medio-piccoli di cintura, nelle pianure agricole o nelle montagne boscate, senza voler perdere la relazione, anche digitale, con le città metropolitane (non necessariamente le più vicine) e i loro servizi di rango più elevato. Le città aumentate, nella loro necessità di pluralità, vengono descritte usando la metafora delle mangrovie, piante ibride che crescono solo in una fertile intersezione di condizioni: sono aeree e subacquee e vivono sulla soglia tra acqua dolce e acqua salata. Le “città mangrovia” sono non-binarie, anfibie, ermafrodite, e ci offrono un’immagine guida della transcalarità ibridazione, flessibilità, contaminazione, apertura, connessione e pluralità delle città della prossimità aumentata. Producono diverse specie di spazi urbani che, attraversando diverse scale (dal paesaggio al quartiere fino all’isolato), configurazioni (materiali e immateriali, minerali e vegetali, formali e informali) e identità (antropiche e naturali, domestiche e relazionali, produttive e creative, urbane e rurali, fisiche e digitali), creano nuovi dispositivi di un abitare sempre più complesso e plurale.



Nello scenario plurale sopra delineato, il capitolo settimo affronta le politiche urbane da una prospettiva femminista come anteprima di una visione plurale dei diritti alla città. Applicare all’urbanistica una prospettiva femminista significa tener conto delle esigenze delle donne e delle persone a ogni livello, indipendentemente dalle loro condizioni economiche, adottando a monte alcune misure che estendano la partecipazione ai meccanismi di decision making urbano e realizzando progetti di rigenerazione urbana realmente partecipata, anche in una prospettiva di genere, e sartoriali perché sensibili alle differenze e capaci di lasciare spazio alle soluzioni che ancora devono manifestarsi. Compito di una città più femminista è infrangere obsoleti confini e specializzazioni funzionali rendendo più collettive, e quindi pienamente urbane, l’istruzione, la cura di bambini, disabili e anziani, il nutrire, sottraendosi dall’automatismo comportamentale che debbano avvenire esclusivamente all'interno della dimensione domestica e, soprattutto, ammettendo la partecipazione di più persone, indipendentemente dal genere. In questa visione di una “città non sessista”, si riporta la questione alla sua naturale dimensione urbana anfibia, riscoprendo la diversità, la prossimità e la cura come valori cruciali. Per attuare la rivoluzione urbana dal patriarcato del potere segregante alla apertura dei ruoli condivisi, bisogna cambiare le ottiche dell’urbanistica, anche a costo di indossarne di dichiaratamente femministe, perché iniziando a guardare le città con gli occhi delle donne, impareremo a guardarle con gli occhi delle tante persone che le vivono, perché progettandole sempre più con le mani delle donne impareremo a progettarle con mani plurali, e, quindi, poi saremo in grado di renderle gli habitat ideali per la fertile diversità dell’Homo urbanus. Insomma, serve un nuovo canone urbanistico.

Al nuovo canone di rigenerazione urbana è dedicato l’ottavo capitolo, poiché non è di una creazione ex novo che abbiamo bisogno, ma di un salto evolutivo delle città esistenti, fatto di aggiustamenti, modellamenti e adattamenti, per accogliere meglio e far progredire la nuova specie urbana. Un protocollo di rigenerazione urbana deve essere capace di riattivare un nuovo metabolismo urbano più creativo, inclusivo ed ecologico, da applicare nei processi/progetti di trasformazione urbanistica che debbano agire per riattivare parti di città (quartieri, distretti, comparti) o di territorio (aree periurbane e rururbane) che debbano uscire da condizioni di declino economico, fragilità sociale, desertificazione demografica o funzionale, dismissione industriale e manifatturiera, rischio ambientale. Il canone della rigenerazione urbana deve comprendere strumenti di sostenibilità economica, poiché, di concerto con le amministrazioni locali per le rispettive competenze, deve poter utilizzare un’adeguata fiscalità urbanistica attraverso provvedimenti di riduzione del costo degli oneri di costruzione e dei costi connessi agli interventi di rigenerazione urbana, nonché attraverso un adeguato sistema di premialità che agevoli e faciliti gli interventi di rigenerazione, di contenimento del consumo di suolo, di riciclo e riuso rispetto alla espansione urbana, di gestione integrata delle risorse e dei rifiuti. Infine, dobbiamo facilitare la costituzione e l’attività di società miste pubblico-privato a cui demandare l’attuazione degli interventi di rigenerazione urbana nel contemporaneo rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti e della efficacia e tempestività degli interventi.



Il nono capitolo è dedicato ai nuovi strumenti per la pianificazione e progettazione delle città dell’Homo urbanus, per la rigenerazione degli spazi e delle comunità. Strumenti che spesso dovranno essere forgiati ex novo, molto più spesso adattando processi e strumenti esistenti per innovarne la capacità generativa di futuro, per aumentarne la creatività e per potenziarne il ruolo generativo di valore, di diritti, di bellezza, di salute, di progresso che era proprio dell’urbanistica dei primi Sapiens e che il tardo Antropocene ha eliminato, riducendola a una disciplina tecnicistica, spesso tecnocratica, composta di sole norme senza adeguate forme, o di pure forme senza necessarie norme. L’urbanistica creazionista dei masterplan, basata prevalentemente su norme e regole prescritte dall’alto, deve lasciare il passo a un’urbanistica evoluzionista del progetto, capace di agire non solo per funzioni (risposte a domande note), necessarie ma non sufficienti, ma anche per effetti (capaci di generare nuove domande a cui risponderanno nuove funzioni), cioè per innovazioni che generano nuovi spazi e relazioni per la nuova specie umana. Serve un’urbanistica capace di cogliere tutte le potenzialità euristiche della creatività urbana: un’urbanistica delle potenzialità e non solo delle necessità. Serve un’urbanistica-bricolage che utilizzi, ricomponendoli, i materiali che le provengono dalla percezione condivisa della realtà, dalle righe di codice scritte da programmatori parziali e dall’arcipelago di spazi vissuti e percepiti in cui è immersa. Serve un’urbanistica aperta e dialogica prodotta da numerosi soggetti con diverse sapienze e portatori di differenti tipi di conoscenza che, insieme, concorrano ad una maggiore customizzazione del progetto di città: un’urbanistica custom made e talvolta self service. Il libro propone un nuovo protocollo, chiamato Cityforming, il quale agisce contemporaneamente con la lungimiranza della visione e con il pragmatismo delle tattiche e delle azioni quotidiane, vive dentro un campo di probabilità determinando a sua volta un ampio spettro di possibilità, e, soprattutto, agisce con il pensiero dei costruttori di cattedrali medievali. Essi, come ho già detto, avevano una precisa visione lungimirante della cattedrale-città del futuro che, spesso sapendo che non l’avrebbero vista completata (e questo dovrebbe far pensare i nostri politici sul tempo lungo delle loro decisioni, oltre le scadenze elettorali), la consegnavano alle successive generazioni per attuarla, forse anche modificandola per adattarla all’evolvere del tempo, attraverso azioni quotidiane della comunità (erigere le mura, scolpire i capitelli, affrescare le volte, ornare le cappelle, ecc.) che la concretizzassero nello scorrere del diverso presente che quelle opere attivavano con la loro creatività. Il Cityforming ci stimola a essere contemporaneamente tempestivi e lungimiranti, immaginare il tempo lungo e agire nel momento propizio, immaginare il futuro e adattare il diverso presente.

Nel capitolo conclusivo viene usata la locuzione latina «Rari nantes in gurgite vasto» che Virgilio (Eneide, I, 118) usa per indicare la capacità di sopravvivenza tra i tumultuosi gorghi dei compagni di viaggio di Enea affondati da Giunone. Una locuzione che ben si adatta alle avanguardie dell’Homo urbanus, a coloro che non hanno paura di nuotare tra i vasti gorghi dell’Antropocene che ancora resiste alla sua fine e che cerca di far soccombere l’umanità. In ogni salto evolutivo si generano numerose varianti per assicurare che una specie, attraverso la selezione naturale, sia la più adatta ad affrontare la competizione, sia capace di adattarsi alle mutazioni dell’ecosistema e di adattare alcune innovazioni per generare un nuovo ecosistema, emergendo dal vasto mare dell’evoluzione. Gli esseri urbani descritti nel libro sono come i rari nantes in gurgite vasto, i pochi ma più abili nuotatori capaci di resistere al grande gorgo della selezione naturale, quelli che come Enea e i suoi compagni più idonei a superare il naufragio possono proseguire l’avventura, mentre gli altri sono destinati all’oblio in fondo al mare dell’estinzione. Di gorgo in gorgo i più abili nuotatori di Homo urbanus dovranno superare vari naufragi (fallimenti, conflitti, crisi) che ne potenzieranno il genoma, portando con sé verso le generazioni successive le nuove caratteristiche di una umanità che rientri entro la relazione ecologica con il pianeta, con le altre specie, in un rinnovato rapporto simbiotico con le città..